Stazionario sarà lei, un libro per affrontare le salite della vita
Corinna Albolino
Nel libro di Gianni Falcone è il sapiente uso dell’ironia, di cui l’autore è esperto, ad attribuire levità al racconto. Senza banalizzare, svilire quanto di tragico ci può accadere.
Accade… accade da giovani, accade da vecchi; capita che la vita ci sorprenda con momenti di fugace felicità, ma più ancora con imprevedibili eventi tragici. E quando l’evento infausto colpisce una giovane donna, per di più una madre che ha appena dato alla luce un secondo figlio, come nel caso di Alessandra, la protagonista del libro di Gianni Falcone, allora il fatto si carica del tremendum. In un mare a forza sette, in gioco infatti è la vita stessa. Si salverà? È quanto si chiede con trepidazione la numerosa cerchia dei familiari e dei parenti, accorsi dal Sud al Nord per vegliarne il risveglio dal coma. Sentinella vigile, Skipper, il cane pastore di casa.
E allorché, dopo una lunga lotta, a vincere è l’élan vitale, la tempesta non si placa, perché subito la preoccupazione corre alle conseguenze neurologiche che l’emorragia cerebrale può aver lasciato. È il momento della conta delle rovine invalidanti impresse nel corpo, nella robustezza della sua carne. I danni ci sono, chirurgicamente non sanabili, compromessa da una emiparesi è in particolare la parte sinistra e tutto il recupero, se possibile, è affidato ora ai prodigi della tecnica riabilitativa. È a fronte di questa lucida consapevolezza che l’intera famiglia è costretta a cambiare rotta di vita, si sente chiamata ad investire ogni energia in un programma di salvezza mirato a restituire un senso di vita ad Alessandra, a garantire un futuro ai suoi piccoli. Uno sforzo immane, là dove non c’è più neppure una casa che possa essere adeguata ai nuovi bisogni, là dove è miseramente fallito il progetto lavorativo appena intrapreso da Alessandra. Dove tutto sembra fluttuare tra solitudine e caos, perché anche i medici, dubitando di ogni evoluzione, depongono per una diagnosi irreversibile, la famiglia, non si arrende.
In particolare Gianni, il padre, non rinuncia alla speranza che un miglioramento sia ancora possibile. Non accetta il reiterato esito medico di stazionarietà della malattia. Non demorde, si attiva in rete, stabilisce contatti con uno specialista internazionale, approfondisce nuove conoscenze scientifiche, sperimenta ausili riabilitativi appena collaudati, non disdegna nemmeno di consultare, quando tutto sembra naufragare, perfino sedicenti guaritori, pur nello scetticismo di una ragione che non lo abbandona mai. Stringe infatti collaborazioni a diversi livelli con gli specialisti e gli operatori della riabilitazione, con associazioni che da tempo si occupano di handicap. Non lascia nulla di intentato.
Contro ogni forma di privacy del dolore, la casa rimane sempre aperta a chiunque voglia offrire un contributo, soprattutto pratico, perché c’è molto da fare. Alessandra necessita di assistenza, i bimbi di accudimento e poi urge un programma di sostentamento familiare tutto da inventare. Il quartiere si mobilita, le associazioni danno una mano, Verona sfodera tutta la sua antica pietas e solidarietà, arrivando là dove le istituzioni, i servizi sociali non sono più in grado di sopperire. Tra mille difficoltà la vita di Alessandra procede, ma a rilento, sempre tentando piccoli miglioramenti che le garantiscano maggiore autonomia.
Nella coralità degli sforzi che si sono messi in moto, tutto è vissuto in modo meno drammatico. Il racconto di vita di Alessandra è intenso, come è del resto ogni storia di sventura, ma a renderlo più coinvolgente e speciale è lo stile di scrittura di Falcone. Una scrittura particolare che sa toccare e rendere con efficacia, senza enfasi, tutti gli elementi di tragicità della situazione, ma senza annegare in essa. Quando i fatti sfiorano il dramma, trova sempre vie di fuga, introduce un aneddoto che alleggerisce, una battuta che riporta il sorriso, devia su altre storie più positive, prende fiato con una vignetta. Stempera il pathos, utilizzando la digressione verso discorsi più generali che hanno sempre a tema l’invalidità, offrendo approfondimenti di conoscenza a livello di studi, normative, avanzando proposte politiche.
L’attivismo è incalzante, altro che essere stazionari! Motore di tanta operosità e che guida il cammino è il pensiero angosciante del “che ne sarà di loro dopo di noi”. Ma nello specifico è il sapiente uso dell’ironia di cui l’autore è esperto ad attribuire levità al racconto. Senza banalizzare, svilire quanto di tragico ci può accadere, aiuta a non farci travolgere, a prendere un po’ di distanza, a non cadere nella disperazione, ci insegna a guardare oltre, così da intravedere anche nel peggio risvolti più sopportabili.
Si scopre così che anche il dolore è fonte di ricchezza, apre scenari di conoscenza impensabili quali il valore delle relazioni, la solidarietà, ma soprattutto l’importanza del fare e sentirsi comunità. L’ironia è insomma uno strumento di sopravvivenza; ridicolizzando un po’ il nostro ego ipertrofico, ci ricorda che da soli non si va da nessuna parte, che in questa società, sempre più vecchia e precaria, ciascuno di noi, più longevo, ma più fragile, a prescindere da eventi traumatici, ha lì pronta una sedia a rotelle che lo aspetta e deve pertanto preoccuparsi che qualcuno amorevolmente la spinga.
Verona In, 20.08.2019