Il popolo dell’attesa

Ogni pomeriggio veniamo qui, dandoci il turno, per ascoltare i medici e stare qualche minuto con Alessandra. È il momento dal quale ci attendiamo di capire se qualcosa sta cambiando, se c’è stato un progresso, se appare qualche segnale confortante. L’incontro con i sanitari invece è vissuto come un passaggio inevitabile ma privo di significato, tanto non fanno che dirti che è stazionaria. Sono sempre in due, magari uno di loro fa la faccia solidale e comprensiva, ma le parole son sempre quelle e tu non vedi l’ora che ti lascino passare. Una volta c’era perfino il primario che mi ha abbracciato commosso ma in silenzio; ci son rimasto male perché ho interpretato il gesto come una sentenza definitiva, ma poi mi hanno detto che faceva così con tutti e ho ripreso a sperare.

Oggi è tutto diverso, direi civile, ma quando anni fa è toccato a noi la sala d’aspetto era un pianerottolo angusto dove si stringeva in piedi una piccola folla di familiari e amici; alcuni restavano fuori perché non c’era posto, oppure per fumare una sigaretta sporgendosi pericolosamente da una finestra.
L’appuntamento era per le 16 ma raramente era rispettato, a volte saltava per qualche emergenza, specie la domenica per gli incidenti avvenuti nel fine settimana.
Si stava appoggiati ai muri in silenzio o parlando sommessi, e così nel tempo dell’attesa sono nate perfino amicizie. Non si chiedeva delle condizioni dei parenti in terapia intensiva, tanto erano tutti stazionari, ma ci si informava delle provenienze, delle famiglie, degli accadimenti che ci avevano condotti lì ragionando sulla sorte, sulle fatalità, sulle trappole della vita.
Una comunità i cui appartenenti non si conoscevano fino a qualche giorno prima e che a breve probabilmente non si sarebbero più visti, uniti da una condizione di straniamento che riduce la realtà a questi pochi metri quadrati, una realtà alterata dall’ignoto che sta succedendo oltre la porta a vetri e che induce perfino a trasferirsi senza remore nel mondo dei miracoli o a trovare subito un responsabile della propria attesa sofferente.
C’era chi cercava di spargere fiducia e ottimismo informandoci che stava cercando di stabilire a favore proprio e dei presenti un contatto con Padre Pio o Madre Teresa, ma non mancava chi non si lasciava sfuggire l’occasione per diffondere sconforto e disperazione sostenendo che tutto sarebbe finito male, visto il governo che ci ritroviamo.
Ci sono figli, mariti, mogli che una porta divide da un familiare che le macchine tengono in una vita sospesa; una donna africana con le poche parole che conosce ci dice del suo uomo caduto da un’impalcatura. Conosciamo tra gli altri Filippo e sua moglie Pina,  vengono dalla Sicilia e hanno qui un ragazzo, Carmelo, vittima di un incidente stradale. Si tengono stretti, stanno in silenzio, aspettano con pazienza che si apra la porta e poi venga il loro turno; si portano dietro la dignità e il silenzio di chi da sempre è costretto a cercare lontano da casa una ragione di vita o, come in questo caso, la speranza di una guarigione.
Son passati gli anni e ogni tanto vengono qui per un controllo, così ci si rivede e ogni volta è un piacere.
Carmelo ora si muove su una sedia a rotelle e ha saputo riafferrare la vita che gli stava sfuggendo. Lo ritroveremo più avanti in queste pagine.

Will You Miss Me – Notting Hillbillies

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